Io
ti dò i baci e tu le albicocche
lettera
a Benvenuto
12 gennaio 2012
Mio caro
Benvenuto,
questa mattina mi sento un po' sola e così ti scrivo.
Potrei venire a trovarti nell'orto, sono pochi passi, ma ho bisogno
ancora di caldo alle ossicine. Gli altri dormono, mi succede sempre:
mi sveglio per prima e ho voglia di chiacchierare.
Il
tuo tronco è sottile come il mio braccio, ho visto che ti è uscita
tutta una specie di resina e ha fatto una bolla arancione. Ho pensato
fosse il tuo modo di dirmi che vorresti vivere in un altro posto, in
un'altra terra. Dove ti piacerebbe stare?
A
me lì piace, è come un'oasi. Lì mi è accaduta la cosa più brutta
della mia vita, sono quasi sicura che appena ti ho toccato tu lo hai
saputo. Ma è lì che ho anche fatto mille scoperte meravigliose e
che ho lasciato che il sole mi prendesse la faccia: mi ha preso la
faccia a due mani stringendomi le guance e non me l'ha più lasciata,
nemmeno di notte.
Cosa
si sussurrano le tue radici là sotto?
Una
volta ho immaginato che mi crescessero le radici dalle pupille. Sì,
perché in realtà si dice sempre che mettere le radici significa
fermarsi ma se ci pensi bene vuol dire nutrirsi e a me con gli occhi
sembra sempre di nutrirmi.
È
come una pace che allaga lo sguardo, come succhiare il latte
direttamente dai colori: il verde chiarissimo dei germogli, il giallo
delle spighe di riso al sole e il marrone pieno della terra appena
arata. Lo guardo e il colore diventa calore, la materia si mette a
bruciare e non si consuma, è lì tutta per me.
Attorno
ci sono campi di meliga e fossi di ricci e leprotti, tramonti rosa
spillo che ti bucano la gola e nebbie profonde come sipari magici.
Quando arrivo nell'orto, dopo la piccola curva, il mondo resta dietro
ed è
subito lontanissimo,
so che lui mi guarda ma non importa. I pioppi bianchi scintillano per
aria e mi dicono di brillare pure io, di non dimenticarmene.
La strada
una volta proseguiva fino al fiume e per quel cammino a piedi i rami
diventavano bastoni, i sassolini si ricordavano di essere monili e le
orecchie ascoltavano il suono delle libellule in volo senza sapere
cosa fosse. E poi infine il Po: disarmante, bellissimo e riottoso.
Lui inquinato ed io comunque innamorata.
Non c'è più
quella strada, ne hanno costruita un'altra di là ma non è bella, è
fatta di asfalto.
Dolce
Benvenuto, andrò fino alla fine dell'argine laggiù e urlerò il tuo
nome, no, prima guarderò la diga, guarderò il ribollire freddo
dell'acqua e poi urlerò il tuo nome. E faremo un esperimento, per
vedere se in quel vento ti arriverà anche l'acqua che ribolle o solo
il mio amore per te.
Poi correrò
indietro senza fermarmi, correrò veloce da avere il fiatone così
quando sarò vicina respirerò tanto forte che ti sembrerà di
correre e poi mi stenderò per terra arrotolata sotto la tua
piccolissima ombra e proveremo fino a che punto puoi leggermi nel
pensiero.
Arriveranno
le api, lo sai. Ti piacciono le api? Credo di sì. Anche a me
piacciono, ma se mi pungono posso morire. Con gli occhi cerco di
seguire il loro disegno nell'aria, credo che ci sia proprio un
disegno nel loro volo ma è nascosto, è una scrittura invisibile, e
poi ogni volta perdo il filo e la linea si disfa come un fiocco
troppo blando.
Se io
potessi fiorire come fai tu, una volta all'anno, chissà... che
meraviglia. Ma forse ogni volta avrei paura di non fare fiori, a
febbraio sarei già preoccupatissima, notte e giorno preoccupata. Tu
hai mai paura di non fare i fiori?
Papà
dice che sei malato, anche se sei appena arrivato. Ti ha dipinto
tutto il tronco di verderame, a me sembri carino così, dai, fai
finta che sia un vestito, praticamente è un tubino color verde
acqua, una medicina che è anche un vestito, un vestito che ti cura.
Di
sicuro devi guarire, perché abbiamo fatto un patto, te lo ricordi?
Io ti dò i baci e tu le albicocce. Va bene?
Questo
pomeriggio arrivo,
tua Serafina
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